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 Oggetto del messaggio: L`industria: passato o futuro della nostra economia?
MessaggioInviato: 13/03/2009, 14:19 
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Iscritto il: 13/02/2009, 19:24
Messaggi: 8
Care amiche, cari amici,
vi segnaliamo che e' ora presente sul sito di Romano Prodi il testo integrale della sua lezione di investitura come accademico della Real Academia delle Scienze Economiche e Finanziarie a Barcellona.

"L`industria: passato o futuro della nostra economia?"
http://www.romanoprodi.it/wordpress/interventi/lindustria-passato-o-futuro-della-nostra-economia_580.html

Se lo desiderate, potete inviare le vostre impressioni ed i vostri commenti sui Forum della Fondazione.

Apriamo qui ora un nuovo thread all'interno del già esistente e partecipato forum "Guardandosi intorno".

E' pronto per voi proprio qui.
Potete cominciare subito a dialogare.

Se non siete ancora registrati, potete farlo subito cliccando su "Iscriviti" in alto a destra.


Buona lettura

e buona partecipazione al Forum della Fondazione !


la Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli


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 Oggetto del messaggio: La legge dei tre stadi
MessaggioInviato: 13/03/2009, 21:23 
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Iscritto il: 04/02/2009, 15:47
Messaggi: 57
Necessariamente, ogni sistema economico, nella sua evoluzione, passa per questi tre stadi:

1.] prevalenza del settore primario (agricoltura) fino a saturazione, e poi passaggi al settore successivo.
2.] prevalenza del settore secondario (industria), fino a saturazione, e poi passaggi al settore successivo.
3.] prevalenza del settore terziario (servizi), fino a saturazione, e poi collasso del sistema.

Questa sequenza non segna un progresso, ma una tautologia economica, che mette in luce le contraddizioni del sistema capitalistico, ovvero la sua paradossalità.
Spiegazione: nelle economie primitive e di sussistenza, è ovvio che la prima preoccupazione sia il cibo. Insieme ai vestiti. Questi divengono sempre più comodi. In base alla scala di Maslow, applicata a tutto il sistema economico e sociale, vinte le necessità di sussistenza, la produzione riguarderà i beni secondari (e l’evoluzione dei beni primari, o necessari per vivere). Si passa così alla prevalenza del settore secondario. Attenzione però: il passaggio al settore successivo non significa che il primo viene abbandonato (l’abbandono del settore primario equivarrebbe alla morte della società, riguardando esso il cibo), ma solo la fine della sua prevalenza. E perché ? Perché un sistema capitalistico può funzionare solo in condizioni di espansione continua, cioè di assorbimento costante o crescente della produzione. Si può dire che non possono esistere profitti senza economie di scala, e quindi la domanda deve sempre poter assorbire la produzione. La prevalenza significa che il settore successivo attire una somma di redditi superiore, perché cresce di più. Ecco che il passaggio tra i settori significa solo che il settore va in saturazione, e quindi la necessità di produrre fa passare al settore successivo.

Conseguentemente:

1.] quando il settore primario si satura, esso non cresce (ma neanche diminuisce), rimane costante e il fattore di guadagno diventa il settore secondario.
2.] quando il settore secondario si satura, esso non cresce (ma neanche diminuisce), rimane costante e il fattore di guadagno diventa il settore terziario.
3.] quest’ultimo settore cresce fino a esaurire tutti i bisogni possibili (società dei servizi = “paradiso in terra”), e, esauriti questi, l’economia cesserà di crescere, e il sistema economico globale necessariamente collasserà per sovraproduzione di servizi (secondo la previsione di Marx).

Va aggiunto che ogni sistema economico deve necessariamente passare per questi tre stadi, perché:

1.] ogni sistema capitalistico deve crescere per sopravvivere (il profitto è il motore del PIL);
2.] si parte dal cibo;
3.] si passa ai beni fisici;
4.] poiché, e solo in quanto, i beni fisici si saturano, si passa ai beni immateriali.

Nella comunicazione tra diversi sistemi, alcuni più progrediti e altri di meno, il passaggio 3.] può essere concomitante al passaggio 4.], ma certamente il computer non serve senza vestiti, e non serve neanche se i vestiti non sono di qualità (cioè sono scomodi).

Nota osservativa sulla lezione del Prof. Romano Prodi

Egli mostra la contraddittorietà del sistema economico, quando afferma che i sistemi paese ancora industrializzati (Germani, Giappone e Italia: prevalenza del settore secondario) sono maggiori esportatori. Con ciò non si dimostra una tesi di progresso, perché se uno esporta, l’altro importa, e ciò significa che non tutti possono esportare. Una tesi di progresso può invece essere la seguente: vero progresso si ha quando ogni paese passa per i tre stadi, e ciò significa che non è vero progresso quello che vede un paese al terzo stadio, mentre altri paese non sono neanche al primo (cioè hanno una popolazione che muore di fame). Esprimo piena concordanza sulla necessità di evitare il protezionismo, posizione che mi è stata appunto insegnata da Prodi. Ma va aggiunto che il blocco della tendenza alla delocalizzazione è consentito da quella che potrebbe essere una legge economica, che può essere definita così: ogni sistema economico, che cresce, tende a rendere omogeneo il benessere al proprio interno, allineato ai livelli di benessere dei paesi confinanti, se questo è maggiore, per cui la delocalizzazione si arresta perché cessa di essere conveniente effettuarla, in quanto in ogni paese il costo del lavoro si rende omogeneo, cioè verso livelli di benessere crescente. Le scompensazioni tra i paesi sono destinate a cessare. L’unico problema del capitalismo è la sovraproduzione nei tre settori, la quale è la causa del passaggio tra di essi verso i terzo settore, anch’esso a rischio saturazione. Come evitare l’arresto della crescita per sovraproduzione, consentendo costanti profitti ?


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 Oggetto del messaggio: La condizione della convergenza
MessaggioInviato: 14/03/2009, 13:10 
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Iscritto il: 04/02/2009, 15:47
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In un sistema economico, se le imprese sono lasciate libere di operare secondo il gioco della competizione, ogni singola impresa sarà portata a “comprare” tutte le altre fino a far convergere l’intero sistema economico verso il monopolio. In un sistema economico costituito da molteplici piccole imprese, per un fattore casuale (un’asimmetria dovuta a disparità geografica delle risorse naturali e alla competizione), l’equilibrio si rompe, e necessariamente alcune imprese inizieranno a crescere di dimensioni, acquisendo le altre. E’ vero quindi che il sistema economico passa necessariamente dalla concorrenza perfetta, di piccole imprese, all’oligopolio fino al monopolio. Cioè ogni impresa cresce di dimensioni, fino a far convergere il mercato al monopolio. Se questa legge non è dimostrata vera, è solo perché la legislazione dello stato si oppone al monopolio.
In ogni settore economico, inoltre, le dimensioni di un’impresa raggiungono una dimensione ottimale per quel dato tipo di industria (tecnica). Così, mentre non potrà mai esserci un oligopolio per un panificio, per l’industria del petrolio e automobilistica la dimensione ottima (cioè efficiente) è quella dell’oligopolio. Questa legge non è contraddetta da quanto detto sopra riguardo la convergenza dei sistema economico al monopolio, perché dato il monopolio, esso non consisterà in un unico centro produttivo nel mondo, ma in molti centri, le cui dimensioni organizzative ottimali sono quelle dell’oligopolio, o della concorrenza perfetta, ma con un’unica proprietà (il monopolio).
Se il sistema economico non viene fermato e regolato dalla legislazione dello stato, esso converge al monopolio in ogni settore (coem detto, dal punto di vista della proprietà, non da quello organizzativo, che segue la seconda legge, quella della dimensione ottimale in ogni settore), e infine al monopolio di tutti i settori. Il motore di tale convergenza di ogni sistema economico verso il monopolio è la volontà di profitto (mossa dalla volontà di potenza), che spinge ogni impresa verso la grande dimensione. Il risultato finale sarebbe quello di un’unica impresa nel mondo, in mano a pochi azionisti, che produce tutti i prodotti per tutti i mercati, operando con centri produttivi la cui dimensione è ottima per quella data industria (piccolo centro per il pane, grande oligopolio per l’automobile).
Questa legge di convergenza (ogni imprenditore vuole essere un monopolista, cioè un imprenditore “in grande”) è stata dimostrata dai recenti casi della General Electric e della Microsoft, e andando più indietro con gli anni, dalla Standard Oil Company, imprese la cui tendenza al monopolio è stata fermata dalla legislazione antitrust americana e europea. Esse spingevano il mercato verso il monopolio. Questo è consentito perché la rottura della simmetria tra le imprese fa sì che una domini sulle altre, può ad esempio praticare prezzi più bassi, facendo uscire i concorrenti dal mercato, i quali così vengono acquisiti.


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 Oggetto del messaggio: Re: L`industria: passato o futuro della nostra economia?
MessaggioInviato: 14/03/2009, 14:39 
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Iscritto il: 14/02/2009, 11:44
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Mai come leggendo queste pagine ci si può rendere conto della attualità delle parole di Epitteto, quando diceva che il problema non è nella realtà ma nelle opinioni che noi abbiamo attorno ad essa.

Esaminare il mondo e la produzione in termini di solo PIL porta a mio avviso ad una visione prospettica distorta. Anche da una visione distorta tuttavia possiamo, a ritroso, sciprire qualche cosa. Basta sapere come funzionano le lenti.

Per prima cosa occorre considerare il perché di certi cali o di certi aumenti.
Prendiamo l'agricoltura. Come giustamente affermato da androcom, da una società in cui l'agricoltura era quasi la fonte principale si arriva oggi, nelle società sviluppate ad un valore residuale di PIL rispetto all'insieme del valore aggiunto. Credo che si debba cercare di capire il perché, per poi vedere se pari considerazioni le possiamo fare per l'industria, il terziario e ciò che verrà dopo.

Nella società di 5000 anni fa l'agricoltura era il motore di tutto, attorno a cui però si sviluppava una società basata sulla divisione del lavoro, con soldati, sacerdoti, scribi, mercanti, fabbri, artigiani e marinai.
Oggi a livello mondiale l'agricoltura “pesa” nel PIL per il 4%, con un 32% di industria ed un 64% di servizi. La crescita mondiale del PIL era, almeno fino al 2008, del 3.8% mentre quella della popolazione dell' 1.2%. Il fatto che l'economia cresca più della popolazione è un fatto positivo (fatte salve le esigenze di una migliore ridistribuzione).

La diminuzione del peso dell'agricoltura nel PIL è però un artificio numerico, dovuto al fatto che misuriamo il tutto in termini di PIL. In realtà da 5000 anni a questa parte la popolazione è aumentata paurosamente e mangia molto di più e meglio di prima. La diminuzione apparente dell'agricoltura quindi è dovuta agli enormi guadagni di produttività, i quali ci permettono di produrre più cibo con meno consumo (e spreco) di risorse, energia, tempo, lavoro umano. E quindi ci permette di dedicarci ad altro. Per esempio leggere questo forum invece di lavorare nei campi dall'alba al tramonto. Ed è dovuta al fatto evidente che esiste un grande sistema secondario. Senza le macchine agricole e la tecnologia, senza l'energia, non potremmo produrre cosi' tanto cibo (produttività per ettaro). Ma anche la scienza e la tecnologia, con gli ibridi F1 e gli OGM, in stretto rapporto con avanzate tecniche produttive industriali permettono enormi guadagni di produttività. Possiamo quindi affermare che l'agricoltura è oggi quella che è (la fonte di vita per quasi 7 miliardi di persone) grazie all'industia, alla scienza ed ai commerci, quindi grazie al secondario ed al terziario.

Secondo me lo stesso ragionamento vale per il secondario. Esso tendenzialmente tende a diminuire, se esaminato con la metrica del PIL, perché gli enormi guadagni di produttività consentono all'uomo di dedicarsi ad altro. Ma rispetto a 100 anni fa, quando proporzionalmente l'industria era piu' forte, produciamo una mole di beni enormemente superiori. Dopo il terziario non c'è l'abisso ma già si ipotizza di un sistema di quart'ordine, dedicato al benessere. Se sempre meno tempo lo dedichiamo ai campi, ai bulloni, ai servizi, possiamo finalmente divertirci e rilassarci. Ed attorno a questo si genera un'industria che prodice essa stessa ricchezza.

L'errore di Marx qui è di ipotizzare un sistema chiuso, con dei limiti.
Invece i nostri sistemi umani sono aperti e ogni generazione apre nuovi spazi, trova o scopre nuove fonti di energia, innovazione tecnologica, guadagni di produttività, nuovi beni e servizi. In particolare l'incremento dell'innovazione è talmente imprevedibile che ogni previsione sul futuro è impossibile. Chi di noi negli anni 50 o anche 60 poteva immaginare l'attualità con un miliardo di personal computer e la rete internet? Non è possibile fare previsioni, solo profezie. E di profeti che sbagliano o che ci azzeccano per caso non ne abbiamo bisogno.

Tornando all'industria ed al suo calo assoluto (o relativo o apparente) anche i guadagni di produttività industriale (pensiamo al numero di ore necessarie per costuire un'autovettura, le materie prime impiegate, alla energia consumata nel processo produttivo e nell'uso del prodotto stesso) comportano una graduale diminuzione del suo peso rispetto al valore aggiunto complessivo nazionale. Il successo di un sistema industriale è legato anche alla qualità del suo terziario (i servizi di vendita, per esempio) cosi' come il successo del settore primario è legato al secondario.

Ma perché osserviano che alcune nazioni, come la Germania, vedono ancora una forte presenza di secondario, rispetto ad altri paesi? Potremmo considerare l'ipotesi (a cui non credo) di una scarsa produttività e quindi di un forte peso del settore secondario per quel motivo ma a mio avviso per la Germania, nazione industrializzata da quialche secolo, non è cosi'. L'esportazione è il fattore determinante. Il peso del secondario in certi paesi è maggiore semplicemente perché se sono bravi a fare certe cose, esporteranno quei beni, a scapito di chi non ha pari capacità.
Non quindi contradditiorietà del sistema economico, come suggerito ma la base stessa del funzionamento del mondo moderno da 10'000 anni a questa parte: la divisione del lavoro ed il suo produrre ricchezza per tutti.

Ovviamente non devo spiegare questo al Prof Prodi, che le sa benissimo, me nell'ambito delle discussioni qui dentro è bene non lasciare temi inesplorati pensando che tanto gli altri dovrebbero saperlo. Come informatico so scrivere programmi e so anche cambiare una CPU ad un computer. Non so assolutamente fare un trapianto cardiaco. La divisione del lavoro è estremamente intelligente e utile per tutti quando chi sa fare bene il suo lavoro lo fa ed è premiato per questo.
Nessuno si farebbe fare un trapiano cardiaco dal sottoscriotto ed è bene che io non li faccia. Se è vero che so cambiare bene le CPU non farò questa operazione solo le mie ma anche quelle di altri. Non vale solo a livello delle eccellenze personali ma anche, a livello macroscopioco per quelle nazionali. Un buon livello industriale, supportato da un adeguato sistema educativo e formativo, da adeguati investimenti in ricerca e sviluppo, da condizioni quadro nazionali di prim'ordine, dalla stabilità politica, da investimenti di capitale, può produrre un sistema che nella competizione internazionale offre un ottimo equibrio tra qualità e costo. Quel sistema industriale, producendo non solo per se stesso ma per gran parte del mondo, sarà vincente. Dobbiamo quindi guardare contemporaneamente ai modelli vincenti e perdenti per capire i rispettivi motivi: i fattori di successo e di insuccesso.

Il modello italiano del made in Italy pare ancorato al “saper fare” legato alla tradizione e cultura artigiana e manifatturiera (scarpe, mobili, cibo) mentre quello tedesco alla tecnologia ed all'innovazione. Sono forse banalizzazioni estreme ma è per capirci. Giusto comprare scarpe italiane, macchinari tedeschi o svizzeri, computer con circuiti elettronici fatti in estremo oriente, fatti su brevetti americani frutto della loro ricerca universitaria. Ogni competenza conquistata è qualcosa che aiuta l'intero sistema mondiale. Qualcuno investe in ricerca e sviluppo (USA) e poi con macchine tedesche si costruiscono computer in Cina. Poi tutti contenti quando vogliamo delle scarpe nuove o dei mobili (o una bella Ferrari) si compra il marchio italiano.
Ogni sistema paese ha la sua competenza in alcuni settori e questo determina il successo mondiale e valori di PIL superiori alla media in quel settore.

Il problema qui caso mai è capire perché certi paesi avanzati hanno livelli insufficenti di quota di PIL a livello industriale o altro. Chiedersi perché il loro sistema industriale perde colpi. Significa che stanno perdendo una competizione su quel settore e che incece dovrebbero concentrarsi su un settore in cui sanno essere forti. Oppure accettare la sfida competitiva nel settore in cuo sono in difficoltà, sapendolo rilanciare.
Alla base per tutto però, esaminando un sistema-paese, ci deve essere sempre ricerca, sviluppo, formazione, innovazione, stabilità politica, investimenti, ridistribuzione equa della ricchezza.
Il tutto ad un costo fiscale accettabile.

Francesco

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 Oggetto del messaggio: Re: La condizione della convergenza
MessaggioInviato: 14/03/2009, 15:00 
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Iscritto il: 14/02/2009, 11:44
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androcom ha scritto:
In un sistema economico, se le imprese sono lasciate libere di operare secondo il gioco della competizione, ogni singola impresa sarà portata a “comprare” tutte le altre fino a far convergere l’intero sistema economico verso il monopolio.

No, credo che tu non stia considerando molte cose importanti.
Vero che ognuno vorrebbe essere il primo ed unico, ma ci riesce solo se è bravo e riesce a rimanerlo nel tempo.
Negli anni 80 il primato dell'informatica aveva un nome chiaro e praticamente unico: IBM.
Seguivano alcune aziende che se cerchi oggi non trovi piu' con il loro nome.
Oggi è la Microsoft. Questo dovrebbe far capire che l'iinovazione tecnologica è il dato di fatto (assolutamente imprevedibile) che scompagina ogni ragionamento come come quello qui sopra riportato.

Non credo che la discussione sui monopoli c'entri con il tema aperto dal Prof Prodi tuttavia va chiarito che non è affatto male se qualcuno è cosi' bravo da diventare primo e unico. L'importante è che il sistema permetta a chiunque (come è successo a Bill Gates) di entrare nel sistema e diventare primo, giocando le sue carte. Offrendo un sistema diverso e migliore. Il problema riguarda quindi la qualità di questa competizione. Il monopolio non va bene se la concorrenza è impedita, se vi è abuso di posizione dominante (come la stessa Microsoft è stata condanata, esattamente come rischiava 20 anni fa la IBM) o se è lo stato che in qualche modo appoggia e crea un monopolio. Ma se le regole sono rispettate ed uno è cosi' bravo da diventare monopolista, il problema non sono le regole ma la scarsità di innovazione in quel settore.

Oggi già si vedono i nuovi sfidanti di Microsoft (es: Google) e visto che questi sfidanti sono veramente bravi, la Microsoft non riesce a comprarseli.
Diciamo che quindi se in un settore c'è innovazione, ci sarà anche un continuo ricambio tra i miglioro soggetto industriali. Se non 'è innovazione, si tenderà a rinforazare le rendite di posizione e qui lo stato puo' fare molto per impedire abusi.

Francesco

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 Oggetto del messaggio: Re: L`industria: passato o futuro della nostra economia?
MessaggioInviato: 15/03/2009, 10:04 
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Anch’io (se ho ben interpretato il pensiero di Francesco) non sono del tutto contro il monopolio. Mi ricordo (cioè non mi ricordo bene) una lezione di economia politica, in cui di dimostrava che il monopolio comporta una perdita di efficienza a livello di funzionamento di mercato complessivo e di sistema economico. Non mi ricordo i termini del problema, ma è una questione dimostrata col rigore della matematica, coinvolgente il rapporto tra prezzi e quantità, una cosa talmente rigorosa da essere sufficiente a portare un governo a vietare il monopolio per legge. Se non sono contrario è perché sono sensibile alla dimensione della grande impresa, e della ricchezza. E inoltre, usando determiati programmi per computer, mi chiedo che senso abbia usarne di altri, se essi sono (quasi) perfetti, cioè perfettamente funzionali allo scopo (almeno prima di evolvere in peggio …). Ci sono economisti, fautori dell’economia sociale di mercato, che si oppongono al monopolio proprio perché auspicano la competizione tra più imprese come fattore di progresso e innovazione. E’ vero, infatti, che senza la spinta della lotta per la sopravvivenza l’impresa cessa di (forse) di innovare. Ma io credo che Microsoft, più che lottare contro concorrenti, sia cresciuta per una passione intrinseca (motivazione) per lo sviluppo dei programmi, e certamente dalla volontà di guadagno, che l’ha spinta a innovare gli stessi programmi (non per competizione e per sopravvivenza, anche se è chiaro che chi non corre esce dal mercato). Il Prof. Rispoli in un suo libro mostrava che l’URSS è crescita nella tecnologie associate agli armamenti, perché in tale industria doveva competere con gli USA. Negli altri settori industriali invece, in cui non era soggetta alla competizione, non è innovata, con conseguente arretramento. Ma ritengo che una società possa innovare anche indipendentemente dalla competizione. E’ questo il vantaggio del cristianesimo. Se correttamente interpretato. Esso è andato in crisi, perché i sacerdoti sono convinti che a Dio basti “stare in pace” per avere la salvezza. Non è così. Per avere la salvezza si deve far fruttare i propri talenti. Per questo l’etica cristiana spinge a innovare, a cercare, a migliorare, anche senza competizione e selezione. E’ un’utopia, ma il Vangelo lo dice chiaramente. Dio non può accontentarsi di “suorine dimesse”. Il cristianesimo può essere la spinta per la società a innovare senza competizione (e senza necessaria ricerca del profitto). Inoltre, il cristianesimo non è contrario alla ricchezza, purchè questa non offenda la dignità del lavoratore. Perché dico queste cose ? Perché credo che prima o poi il sistema capitalistico dovrà cedere a un nuovo sistema, e il cristianesimo potrà servire allo scopo.


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 Oggetto del messaggio: L’incompatibilità tra capitalismo e cristianesimo
MessaggioInviato: 15/03/2009, 12:25 
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Iscritto il: 04/02/2009, 15:47
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Mentre è eticamente lecito essere liberisti (come lo sono diventato io persuaso dalla lettura del Corriere della Sera), non è possibile essere cristiani e nel contempo accettare il capitalismo. Circa un’ora fa ero al supermercato, e osservando le cassiere che passano ogni giorno migliaia di articoli sul lettore ottico, mi sono chiesto: “costoro stanno fruttando i propri talenti ? se potessero, non saprebbero anch’esse studiare fino a laurearsi ?”. La risposta è che potrebbero ma non possono perché sono costrette. Non è vero che ognuno fa il mestiere che merita o che sceglie. Il capitalismo non dà a ciascuno uguali possibilità, perché necessita fisiologicamente di commesse, bariste, operai, segretarie, ecc., tutti lavoratori che, pur svolgendo mestieri dignitosi, non possono però studiare. Il capitalismo impedisce all’uomo di fruttare i talenti, cioè contraddice la parola del Vangelo. Quindi esso è anticristiano per essenza.


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 Oggetto del messaggio: Re: L’incompatibilità tra capitalismo e cristianesimo
MessaggioInviato: 15/03/2009, 14:18 
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Iscritto il: 14/02/2009, 11:44
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androcom ha scritto:
Mentre è eticamente lecito essere liberisti (come lo sono diventato io persuaso dalla lettura del Corriere della Sera), non è possibile essere cristiani e nel contempo accettare il capitalismo. Circa un’ora fa ero al supermercato, e osservando le cassiere che passano ogni giorno migliaia di articoli sul lettore ottico, mi sono chiesto: “costoro stanno fruttando i propri talenti ? se potessero, non saprebbero anch’esse studiare fino a laurearsi ?”. La risposta è che potrebbero ma non possono perché sono costrette. Non è vero che ognuno fa il mestiere che merita o che sceglie. Il capitalismo non dà a ciascuno uguali possibilità, perché necessita fisiologicamente di commesse, bariste, operai, segretarie, ecc., tutti lavoratori che, pur svolgendo mestieri dignitosi, non possono però studiare. Il capitalismo impedisce all’uomo di fruttare i talenti, cioè contraddice la parola del Vangelo. Quindi esso è anticristiano per essenza.

lasciando da parte i casi personali concreti (quelle cassiere, quei baristi, ma anche gli ingegneri ed i cardiochirurghi) è chiaro che oggi nella attuale divisione dei lavoro abbiamo bisogno degli uni e degli altri.
Anche in unione sovietica avevano bisogno di camerieri e per esperienza personale in quel ruolo non ci trovavi un "Einstein mancato" ma uno che non poteva fare di meglio.
Quando il nostro cuore perde colpi, qualcuno deve ripararlo. Quando andiamo al bar, al supermerato o quando un rubinetto perde, o una CPU è bruciata, qualcuno deve risolvere il problema.
L'ideale è che ognuno faccia quello che sa fare in base alle competenze ed all'esperienza.
Si spera che ognuno sia il migliore nel suo campo. Non ci sembra un criterio adeguato?

Un mondo in cui il potenziale cardiochirurgo ti serve il caffé mentre un idraulico tenta di sostituirci il cuore non è il massimo. Solo la selezione meritocratica, unita a pari opportunità, si avvicina all'ottimalità.

Qui anche un cristiano dovrebbe ricordare la parabola dei talenti ed accettare il capitalismo.
Piuttosto ritengo che il problema non riguardi i "cristiani" in generale, ma i cattolici.
Infatti i cristiani protestanti, con l'etica rfiormata accettano il capitalismo e lo hanno sviluppato.

Sono invece i cattolici ad avere problemi, ma loro sono solo una parte del mondo cristiano.
Forse confondi cristianesimo con cattolicesimo. Una confusione che fanno, mi pare, in molti.
In germania anche i baristi hanno studiato (le scuole dell'obbigo e le professionali) mentre da noi per un 20% non finiscono nemmeno la scuola dell'obbligo, nel sud Italia e finiscono come manovalanza della criminalità organizzata. Nulla di stravolgente quindi che per tappare i buchi nei bar ci finiscano diplomati e laureati, soprattutto se in discipline inutili in una società moderna che ha bisogno di ingegneri e non di laureati in giurisprudenza.

Non si puo' quindi prendere il caso italiano come esempio per il mondo.
Io se esamino, in tutta la cerchia dei conoscenti che ho (miei familiari o quelli di mia moglie) non trovo nessuno che stia facendo la professione del padre o della madre.

Questo è un indicatore che la società capitalistica, che tu tanto critichi, sta in effetti dando, con l'istruzione di massa, le opportunità a tutti di fare il lavoro migliore. Infatti la nostra non è piu' una società classista.

Ti faccio un po' di esempi, per dimostrare che quello che dico non è campato in aria.
1) la famiglia di mia moglie:
Padre operaio, madre infermiera.
Un figlio laureato in fisica, un ingegnere elettronico, un insegnante elementare.
2) la mia famiglia
Padre artista (musicista) madre impiegata nel terziario.
Un figlio informatico.

L'insieme dei due fattori ha generato, come figli, un ingegnere specializzato in nanotecnologie ed uno nel piu' classico settore dell'ingegneria civile (strade, ponti, gallerie servono sempre).
Ok, nessuno in casa pulisce le strade ma nemmeno dirige aziende miliardarie.
Siamo sulla via di mezzo.

Anche se avessi un figlio barista o disegnatore o becchino o prete o manager di una multinazionale , non mi sentirei in imbarazzo, in quanto ognuna di queste figure professionali serve nella società. Sono ovviamente piu' contentoche i miei figli abbiano potuto seguire le loro aspirazioni ma è evidente che questo non è possibile per tutti.
Se tutti volessero infatti persegure la loro aspirazione di cardiochirurgo o di idraulico, il mondo non funzionerebbe. Tra aspirazione e realtà cè una sostanziale differenza ed il merito è il fitro giusto.

Francesco

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 Oggetto del messaggio: Re: L`industria: passato o futuro della nostra economia?
MessaggioInviato: 15/03/2009, 16:13 
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Iscritto il: 04/02/2009, 15:47
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E’ vero che, come dice Francesco, certi mestieri sono indispensabili [lo sono tutti], ma ritengo che a tutti debba essere data una possibilità …, non dico di cambiare mestiere, essere professionista o appartenere alla classe dirigente [io sono per una società ordinata e armoniosa, che prevede anche una classe sociale ricca e privilegiata, e ci tengo che in questa società ci siano, come dice il Vangelo, servi e padroni, e i servi servono nella casa e nella vigna del padrone], ma la possibilità di studiare, di conoscere, di esercitare con profitto l’intelletto, proprio perché uno possa dire: “è vero, sono un commesso, ma ho studiato”, perché io ho visto giovani con il complesso di inferiorità, e solo lo studio può guarirlo, facendo guadagnare (auto)stima e considerazione per se stessi, anche rispetto ai parenti.


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 Oggetto del messaggio: Re: L`industria: passato o futuro della nostra economia?
MessaggioInviato: 15/03/2009, 18:36 
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Iscritto il: 14/02/2009, 11:44
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androcom ha scritto:
E’ vero che, come dice Francesco, certi mestieri sono indispensabili [lo sono tutti], ma ritengo che a tutti debba essere data una possibilità …, non dico di cambiare mestiere, essere professionista o appartenere alla classe dirigente [io sono per una società ordinata e armoniosa, che prevede anche una classe sociale ricca e privilegiata, e ci tengo che in questa società ci siano, come dice il Vangelo, servi e padroni, e i servi servono nella casa e nella vigna del padrone], ma la possibilità di studiare, di conoscere, di esercitare con profitto l’intelletto, proprio perché uno possa dire: “è vero, sono un commesso, ma ho studiato”, perché io ho visto giovani con il complesso di inferiorità, e solo lo studio può guarirlo, facendo guadagnare (auto)stima e considerazione per se stessi, anche rispetto ai parenti.

Perfettamente d'accordo e mi pare che nel mondo solo la nostra società (occidentale, da qualcuno chiamata capitalista) dia il massimo come pari opportunità di crescita culturale e professionale.
Ovviamente si puo' e si deve fare di piu' (ogni attività umana è imperfetta e perfezionabile) e soprattuto il Italia si deve ancora fare tanto per un reale diritto allo studio.
Consideriamo inoltre che rispetto ad una o due generazioni fa, siamo passati da un sistema per cui la professione imparata era anche quella esercitata (spesso nel prim oed unico "posto di lavoro"), ad uno in cui l'innovazione tecnologica costringe i piu' a cambiare nel corso della propria vita piu' volte professione e/o mestiere e soprattutto occupazione (posto di lavoro).

Francesco

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